Rubrica L’età dell’innocenza: Humandroid di Neill Blomkamp
Può un film che parla di intelligenza artificiale, di androidi, di fantascienza insomma, parlare di infanzia e offrirne una rappresentazione che abbia valore nel e per il presente? La risposta è sì. Sgomberiamo subito il campo ad ogni fraintendimento perché Humandroid non è il primo film di fantascienza che lo fa né il più originale. Basta pensare ad E.T. L’extraterrestre di Steven Spielberg che già nel 1982 raffigura un alieno che, in fondo, non è altro che un bambino (infatti un bambino diventerà il suo migliore amico e sarà disposto a dare la vita per lui, unico tra tutti); oppure (restando ancora su Spielberg che con l’infanzia ha sempre avuto un rapporto privilegiato) ad A. I. Intelligenza artificiale del 2001, in cui il protagonista è proprio un robot che ha l’aspetto di un bambino e del bambino ha tutte le caratteristiche intellettive ed emotive. Nulla di nuovo, quindi, ma, semmai, la ripresa di un filone trasversale che attraversa diverse pellicole ascrivibili al genere fantascienza.
Nella pellicola di Neill Blomkamp, come dicevamo, il protagonista è un androide particolare perché è il primo dotato non soltanto di intelligenza artificiale (androidi di questo tipo, nella pellicola, vengono già impiegati dalla polizia sudafricana) ma anche di capacità emotive proprie dell’essere umano. Nella mente del suo inventore Chappie dovrà essere il primo androide capace di scrivere poesie e di dipingere (dal punto di vista di mercato, quindi, una roba totalmente inutile!). Ma Chappie, al momento in cui viene messo in funzione, non è altro che un bambino indifeso, incapace di parlare e di comprendere il mondo che lo circonda, come qualsiasi bambino alla nascita. Unica differenza è che la sua capacità di apprendimento è notevolmente superiore a quella umana.
Chappie, al momento in cui nasce, ha paura, non si fida di ciò che vede, si nasconde, si ritrae. Tutto questo perché non può contare sul rapporto simbiotico che ogni bambino che vive la stessa situazione ha con la madre, filtro tra lui e il mondo esterno. Chappie, quindi, è come un orfano. Sarà adottato da un’insolita famiglia, una gang di delinquenti dediti allo spaccio e alle rapine. Ed è proprio qui che si innesta l’aspetto più interessante del film, in merito al tema dell’infanzia. Perché Chappie viene educato in maniera diversa da più persone e, di conseguenza, assorbe ognuno degli stimoli che riceve. Da una parte il suo creatore gli dice che non dovrà mai ricorrere alla violenza ma, soprattutto, che non dovrà mai permettere a nessuno di dirgli che non è in grado di fare qualcosa. Dall’altra la mamma adottiva gli insegna il valore delle emozioni e gli spiega che cosa è l’anima, lo accoglie e lo sostiene. Dall’altra ancora il capo della gang, che si arroga il ruolo di padre adottivo, gli insegna a farsi rispettare, a non farsi mettere i piedi in testa da nessuno, a diventare un duro. Tutti questi stimoli contribuiscono a formare la personalità di Chappie che, ben presto, dimostrerà un carattere proprio ed una consapevolezza di sé ben evidente.
Durante le vicende raccontate Chappie apprende, cresce e diventa adulto, tanto che, alla fine della pellicola, arriverà ad avere un’intuizione (che non rivelo perché, secondo me, è lo spunto più riuscito del film) che supererà qualsiasi cosa il suo creatore abbia mai pensato.
Uno degli aspetti migliori della pellicola è la costruzione del nucleo familiare di Chappie, costituito dal capo della gang e dalla sua compagna, personaggi azzeccatissimi che ricordano il gruppo dei cattivi di Doomsday di Neil Marshall. Senonché poi scopri che Blomkamp non si è inventato nulla ma che i due non fanno altro che recitare la parte di loro stessi, tatuaggi compresi! Yo-landi e Ninja, infatti, sono i componenti di un gruppo musicale sudafricano, i Die Artwoord, un riuscitissimo connubio tamarro molto meno ingenuo e naif di quel che sembra a prima vista.
povero,piccolo, Chappie!
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