This must be the place di Paolo Sorrentino
LUI
Codesta pellicola del premio Oscar Paolo Sorrentino, mi ha sempre lasciato perplesso. Non fosse altro (cosa più unica che rara) per il fatto di non aver mai avuto un’opinione precisa sul suo valore. Indeciso se definirla una sorta di ” capriccio” o “prova generale” per il cinema a divenire, del regista italiano.
Cosa è esattamente This is must be the place? Cosa c’è dietro quel suo essere impalpabile, indefinibile, non detto, celato, percepito? Principalmente la storia di un uomo. Anzi, meglio: una rockstar. Questo uomo vive in una sorta di riserva personale, dalla quale esce solo per recarsi in un centro commerciale, al cimitero dove cerca di dar pace al rimorso per un brutto fatto avvenuto nel passato, e una donna . Costei è alla finestra non sappiamo da quanto tempo. Dice che aspetta suo figlio, e come mai quella rockstar le gira in casa?
Cheyenne è un personaggio-simbolo. Dello smarrimento individuale, del rintanarsi in uno stato di autoreferenziale esclusione, di non saper superare tanto un trauma, quanto la crescita. L’impossibilità dell’uomo moderno di non esser un IO castrante e castrato con mire espansioniste ed implosive,ma un essere umano che vive con e per gli altri.
L’uomo però avverte il bisogno di fare qualcosa, di avere una missione, uno spunto per uscire e darsi al mondo. Anche se terrorizzato, impreparato, ma d’altronde anche i suoi tentativi di far nascere l’amore tra due suoi amici, ci lasciano intuire come egli cerchi di rendersi utile, di tornare a vivere.
L’occasione potrebbe esser quella di concludere la vendetta del padre. Trovare un criminale nazista che vive in America, sotto mentite spoglie e fargli pagare l ‘umiliazione che costui inflisse al padre, durante la guerra.
Il tutto narrato con uno stile tecnico impeccabile e ricercato, donde si nota la straordinaria bravura del regista. Una regia che si nota, esplicita, che pretende l’attenzione e la meraviglia. Al servizio di una storia impalpabile, sfuggente, sostenuta da personaggi “monologanti” quasi una rappresentazione dell’assoluta solitudine umana, e dell’importanza di parlarsi. Importanza che naufraga in un uso narcisistico della parola e della vita.
Sean Penn è perfetto . Prende un personaggio ad alto rischio di macchietta, ma lo trasforma in un essere umano dolente, candido, un bimbo sotto le sembianze di Robert Smith. Non il miglior film di Paolo Sorrentino, ma una pellicola interessante e assolutamente riuscita . In virtù di una regia notevole, un personaggio principale indimenticabile, echi al cinema americano della stagione new hollywood e un discorso importante sulla memoria. Famigliare, sicché l’importanza dei legami umani, e storica. Solo riprendendo la nostra radice e impegnandoci nel mondo, possiamo essere finalmente liberi. E un indiano in riserva, tornare a casa. A volto e cuore nudo. Pronto a vivere la sua vita, oltre la reclusione dorata in un insensato dolore. Da segnalare l’ottima colonna sonora e la partecipazione di David Byrne.
LEI
This Must Be The Place è il film che mi ha fatta innamorare di Paolo Sorrentino. Questo non significa che prima di vedere questa pellicola non lo apprezzassi, anzi, era uno di quei registi che seguivo con interesse fin dal primo suo film che vidi, Le conseguenze dell’amore, che tuttora considero il suo lavoro migliore. Ma con la visione di questa pellicola è scattato qualcosa. Perché qui Sorrentino riduce ai minimi termini il valore narrativo della pellicola (dal mio punto di vista la trama, anche piuttosto improbabile e decisamente ingenua, è qui del tutto secondaria) per abbandonarsi ad un cinema di pura suggestione. Un’operazione del genere non è affatto facile e richiede, innanzitutto, una fiducia estrema da parte dello spettatore nel lasciarsi guidare dal regista, nel concedergli carta bianca, in un certo senso. E, da questo punto di vista, questo film è decisamente prematuro nella filmografia del regista partenopeo che ancora nel 2011 non aveva la fiducia incondizionata del suo pubblico, pur avendo già diretto pellicole di indubitabile valore cinematografico.
Eppure io sono stata subito conquistata dal personaggio di Cheyenne, uno Sean Penn, come sempre, gigantesco nelle sue capacità espressive. Penn riesce a trasmettere attraverso il suo personaggio sofferenza, genuinità, fragilità, stupore, delicatezza, riesce a non renderlo mai una macchietta ma ad infondergli vita utilizzando l’espressività di tutto il viso e la fisicità di ogni parte del corpo. Cheyenne è una sorta di Peter Pan che ha paura di crescere e che, quindi, nasconde il volto e i sentimenti più dolorosi sotto strati e strati di trucco. Nasconde un lutto che non è mai riuscito a superare (a causa delle sue canzoni due ragazzi si sono suicidati) nonostante una moglie che lo ama profondamente (una Frances McDormand sempre splendida) e una ricchezza che gli permette di vivere di rendita concedendogli il lusso dell’inattività. E come ogni dolore anche quello di Cheyenne è autoreferenziale, lo porta a chiudersi in se stesso, a non aprirsi agli altri, facendosi scudo con le proprie paure.
La trama del film risulta nettamente divisa in due, con una prima parte che presenta il personaggio di Cheyenne e i comprimari, accennando agli eventi del suo passato, e una seconda parte che è a tutti gli effetti un on the road, che si connota come vero e proprio viaggio di formazione durante il quale Cheyenne farà i conti con il proprio passato e si troverà a confrontarsi finalmente con l’uomo che è diventato.
“Tu non hai mai iniziato a fumare perché sei rimasto un bambino” gli dice, ad un certo punto, la madre di Mary, un’adolescente che è a tutti gli effetti la migliore amica di Cheyenne. E non a caso il momento in cui Sean Penn si accende la sua prima sigaretta non è altro che l’anticipazione della sua crescita, della sua metamorfosi esteriore che si esplica in un meraviglioso sorriso (il primo che Cheyenne fa in tutta la pellicola) su un volto finalmente pulito da ogni traccia di trucco.
P.S. Linko anche la recensione che feci all’epoca in cui vidi la prima volta il film in sala. È sempre interessante vedere quanto io sia in grado di pensare gli stessi pensieri e poi matematicamente dimenticarli!
Apprezzo profondamente il regista ma come LUI pure io condivido una sensazione di perplessità sulla riuscita dell’opera. Tecnicamente impeccabile si rimane interdetti su quello che è il messaggio di “TMBTP”, anzi, il messaggio è piuttosto chiaro, ci si domanda però se il mezzo lo abbia trasmesso in modo adeguato e nonostante lo abbia visto diverse volte, i dubbi persistono.
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Come ho scritto nella recensione ritengo che questo film sia arrivato troppo presto nella filmografia di Sorrentino. Credo che abbia voluto rischiare una forte intesa col pubblico che ancora non ha/aveva all’epoca. Resta il fatto che in me questa fiducia incondizionata l’ha trovata ed è per questo che resta il suo film a cui tengo di più, pur essendo cnsapevole che non è affatto il più riuscito.
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L’opera, infatti, sfugge a una precisa ricostruzione dei fatti e dei personaggi, in fase di sceneggiatura. Però è l’effetto inconsistente e allo stesso tempo profondo del vivere, che viene evocato qui.
Il tutto per arrivare a un finale bellissimo, donde non serve più mascherarsi, essere altro. Ma semplicemente il proprio volto, il proprio essere.
Ciao Axel!
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Io concordo pienamente con LEI. Il film credo sia stato uno tra i più belli di Sorrentino e la sua forza è in quel vaneggiamento in quel non esserci quasi un filo logico ma una sinergia di immagini, parole, ricordi e scene dalla fotografia memorabile (penso al campo di neve immenso dove appare il nazista nudo e un orizzonte che sconfina oltre ogni limite); il tutto meravigliosamente condito da una colonna sonora impeccabile e importante.
Anche a me colpi molto, tanto che mi sono ritrovato nel post di Valentina perchè come lei scrissi di impeto per non perdere quelle sensazioni!
https://assolocorale.wordpress.com/2011/10/20/la-vita-e-piena-di-belle-cose/
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È vero Lois! Ricordo quando all’epoca ne parlammo.
Questo è un film da guardare col cuore e poco con la testa.
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So che non ve ne frega niente… 😉 ma ho deciso di conferirvi lo stesso il mio personale LIEBSTER BLOG AWARD : tranquilli, nessun obbligo da parte vostra, semplicemente è il mio modo per chiedervi scusa: vorrei seguirvi e leggervi con maggior attenzione, frequenza, e puntualità (anche nei commenti), ma ultimamente faccio fatica anche a stare dietro al mio di blog 😦 questo “premio”, se non altro, servirà a farvi conoscere meglio nella blogsfera. Ripromettendomi di essere più presente in futuro (anche per mio interesse: siete bravissimi, ma lo sapete!).
http://solaris-film.blogspot.it/2015/05/liebster-blog-award-2015.html
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Grazie per il premio , Sauro! Fa sempre piacere veder che il proprio lavoro sia gradito e apprezzato, proprio per l’idea di condivisione che sta alla base del nostro blog. Grazie mille, Sauro!
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