The Blues Brothers di John Landis

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LUI

Esiste un periodo (per quanto riguarda il cinema americano)  che io reputo di alto valore artistico. Un periodo che va dal 1976 al 1983,  una sorta di canto del cigno della New Hollywood e di far cinema libero e libertario.

The Blues Brothers è figlio di quel periodo : opera sovversivaanarchica, inno nostalgico di un certo modo di fare: cinema, musica, vivere. Un modo sconfitto forse dalla società, ma entrato nella leggenda.

La pellicola in questione nasce per volere di Dan Aykroyd. A suo dire sul finire degli anni 70 e gli inizi degli anni 80, si ascoltava troppa musica di plastica  e si era dimenticata la grande musica di gente come:  Ray Charles, James Brown, tanto per fare dei nomi. Per questo è nato il film.

Questa è la sua: “Missione per conto di dio”.

Una missione sentita da tanti giovani uomini e giovani donne dell’epoca, e ancora attuale. La voglia di mantenere in vita un sogno ribelle, di vivere sregolati, ma con poche idee ben chiare: non tradire una parola data e combattere contro tutto e tutti. Per aiutare qualcuno che ha bisogno di noi. Fosse una  “pinguina” o una persona che amiamo. Eroi destinati a perdere contro l’ottusità e l’idiozia della repressione reaganiana, contro il periodo nero e nefasto della seconda metà degli anni 80. Ma immortali per noi.

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John Landis  non si limita, quindi, a girare solo un bellissimo e immortale cult movie, ma fa di più: mette in scena il testamento di un’ epoca.

C’è (nascosta dietro a un ritmo sostenutissimo di battute, gags, spettacolari numeri musicali) una profondissima tenerezza e malinconia per i Blues Brothers della vita reale. Musicisti che vivono con passione assoluta la loro arte, gente che non sta alle regole, uomini che vivono vite in bilico e che in nome di cose importanti (la riconoscenza la parola data un legame affettivo) sono disposti a combattere contro il mondo.

Io amo questa pellicola proprio per questo, oltre che per la musica a dir poco meravigliosa che ascoltiamo e vediamo. Dal numero in chiesa (ho visto la luce) con un trascinante James Brown, fino a quelli memorabili con protagonisti Aretha Franklin, Ray Charles, Cab Callaway.

Un inno blues alla gioia, perché impossibile non esaltarsi guardando gli immensi Belushi  ed Aykroyd all’opera. O non muovere il piedino mentre ascoltiamo e godiamo di Think. Ecco, il cinema dovrebbe anche farti sentire bene e in pace con il mondo, dovrebbe scuotere la legnosità fatta da giorni e giorni di vite chiuse in lavori che non amiamo, ascoltando gente come Salvini, vivendo amori traballanti, nascondendoci dietro la nostra autoreferenziale solitudine, per farci godere di due ore all’insegna della gioia assoluta. Anche se, in sottofondo, si sente tutta la malinconia per la fine di un’epoca, la fine di certi protagonisti (Belushi sarebbe morto tre anni dopo) e la certezza che i tempi a venire sarebbero non tanto dei musicisti e degli anarchici, ma degli arrampicatori sociali, dei capitalisti più squallidi, del denaro sopra ogni cosa.

Ebbene, proprio per la buona musica, perché reputiamo fondamentale resistere a questi tempi orribili, perché consideriamo che sia importante avere degli eroi come Jake ed Elwood, per tutto questo diciamo: “Lasciate questa pellicola in eredità ai vostri pargoli”. Varrà di più di mille prediche e non vi cresceranno dei nazisti di Bollate in casa. Pensate a quello che guadagnate!

LEI

Risulta sempre difficile recensire una pellicola che fa parte, non solo della storia del cinema, ma anche della propria storia personale. Si rischia molto spesso di sovrapporre i piani e di non riuscire a distinguere quelle che sono le emozioni che effettivamente quel determinato film suscita rispetto a quello che rappresenta per te, essendo parte imprescindibile della tua storia personale. Non che ci sia qualcosa di male in questo. Se si sceglie di fare una critica emozionale (come a noi piace definire le nostre recensioni) tutto questo va anche bene, a patto di riuscire a trasmettere a chi legge questo groviglio inestricabile di emozioni e ricordi.

The Blues Brothers è uno di questi. I motivi per cui sono così legata a questa pellicola sono, essenzialmente, due. Il primo è che, insieme a Frankenstein Junior, era uno di quei film di cui mio zio mi parlava sempre e che mi faceva vedere ogni volta che lo davano in tv. E mio zio è una delle persone a cui devo parte della mia formazione cinematografica. L’altro motivo è che si tratta di un musical. E io i musical li ho sempre adorati. Ho sempre pensato che il mondo sarebbe più bello se, improvvisamente, tutti ci mettessimo a ballare e cantare! Quindi non comprendo chi afferma che il musical è un genere noioso. Semmai il mondo sarebbe più brutto se non ci fosse la musica che ritengo essere uno dei mezzi espressivi più potenti a nostra disposizione. Perché la musica ha la capacità di abbattere le barriere convenzionali di cui siamo soliti circondarci e di arrivare diretta in profondità, contribuendo a scatenare emozioni che, di solito, tendiamo a trattenere. Inoltre la musica è un linguaggio universale, immediatamente comprensibile a tutti, senza bisogno di conoscerne necessariamente l’alfabeto.

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È per questo che il musical resta indubbiamente il mio genere preferito. E The Blues Brothers è il trionfo del musical! Non solamente perché parla di una band che durante la pellicola si esibisce, ma soprattutto perché la musica è l’anima stessa di questo film. Non a caso alcuni dei maggiori musicisti dell’epoca compaiono all’interno della pellicola con camei indimenticabili (chi non ricorda la predica di James Brown o la splendida Think cantata da Aretha Franklin?) che rendono alcune scene memorabili.

L’abilità di John Landis consiste nello sfruttare al massimo le capacità espressive dei suoi interpreti che, nel caso dei due protagonisti, riescono persino a recitare senza mai togliere gli occhiali da sole e, nonostante questo, riescono a trasmettere perfettamente la gamma dei sentimenti che li attraversa perché riescono a recitare con tutto il corpo, lezione che deriva dai grandi comici del cinema delle origini (Chaplin, Keaton, Tati, solo per citarne alcuni).

Concludo citando la scena che, personalmente, considero il capolavoro di tutta la pellicola, ovvero quella in cui Aykroyd e Belushi vanno a suonare in un locale country sostituendosi alla band prevista. Siccome il pubblico non sembra gradire il blues la band improvvisa un’interpretazione di Rawhide. E qui, per me, il talento comico del mai abbastanza compianto Belushi viene fuori in maniera assoluta. Belushi esegue tutto il brano nella più totale inespressività, a braccia conserte e completamente immobile, fino a quando, sul finale, non afferra una frusta e comincia a schioccarla a ritmo con la musica. Ed così entra a pieno titolo nella storia del cinema.