Polytechnique di Denis Villeneuve

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Attenzione! Contiene spoiler

LEI

Ci sono storie che sono talmente cinematografiche, per loro natura, che stenti a crederle vere. Sembrano nate apposta per essere viste al cinema, perché contengono in sé una potenza e una meraviglia che solo il mezzo cinematografico sembra essere in grado di restituire. La strage che costituisce la trama di Polytechnique è una di queste storie.

Il film racconta i fatti del 6 dicembre 1989 che ebbero luogo nell’École polytechnique di Montréal e nei quali persero la vita quattordici studentesse, prima che il ragazzo che aveva dato origine alla strage stessa si togliesse la vita a sua volta.

Una storia estremamente cinematografica, dicevamo, che Villeneuve sceglie di girare in un meraviglioso bianco e nero che diventa immediatamente simbolico (bianchissima è la neve che ricopre tutti i paesaggi all’esterno e nerissimo il sangue che scaturisce dalle vittime) e contribuisce a raggelare le immagini in quadri di cristallina purezza.

Villeneuve non spiega quasi nulla, le poche parole essenziali sono affidate alle lettere che scrivono i protagonisti della vicenda, ma riesce a farci percepire quello che ognuno di loro prova semplicemente utilizzando il linguaggio cinematografico, attraverso inquadratura e montaggio. Così il particolare della mano dell’assassino che trema, mentre in macchina si prepara per la strage, sta sullo stesso piano del dettaglio di un mandarino sbucciato su un banco nell’aula in cui sono appena state uccise le studentesse. Sono inquadrature intrise di significato e, proprio per questo, colpiscono e feriscono più dei proiettili stessi.

Villeneuve è un virtuoso della macchina da presa, si evince anche dalle sue pellicole successive, ma ci mostra solo l’essenziale e niente di ciò che ci mostra è casuale; è come se dentro di noi si dovesse comporre un puzzle attraverso il quale ricostruire ciò che ci viene mostrato sullo schermo.

Lo spettatore viene catapultato all’interno della vicenda, si sente fisicamente nelle aule universitarie, in mezzo ai ragazzi e, come loro, tenta di fuggire, di scappare, di non vedere cosa sta succedendo perché è insostenibile. Ma il regista non gli permette di fuggire e ogni volta lo trascina di nuovo dentro a quelle aule, a quei corridoi ora deserti. Anche la scelta di mostrare il momento in cui l’assassino crivella di colpi le ragazze alla fine, soltanto dopo aver mostrato l’effetto che questa azione ha generato e quella di raccontarci di nuovo lo stesso evento da un altro punto di vista (la prima volta quello maschile, incarnato dal ragazzo che, unico tra tutti, prova a disarmare l’assassino e la seconda volta quello femminile, incarnato dall’unica superstite) sono assolutamente riuscite.

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Quello che vediamo in Polytechnique fa male. Distrugge perché sfugge ad ogni razionalità e previsione ma, soprattutto, perché lascia strascichi che sembrano impossibili da metabolizzare. Villeneuve ci fa capire che da un evento simile nessuno esce vivo, neppure chi scampa alle pallottole. Perché qualcosa dentro muore inevitabilmente. Assistere ad un fatto del genere e conservare una qualche forma di fiducia verso l’umanità appare impossibile. Eppure, nel finale, il film si apre alla vita, mostrandoci la ragazza che sopravvive incinta, che dice che se avrà un maschio gli insegnerà ad amare. Perché questo sarebbe sufficiente – la cosa più semplice e logica della vita – amare chi appartiene alla tua specie è l’unica soluzione per evitare eventi come quello che Villeneuve ci ha appena raccontato.

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Cosa succede dopo? Sì, dopo gli spari, le urla, le fughe disperate e vigliacche. Cosa rimane? Uomini? Donne? O parti di esse? E quali? Il rimorso, forse. O una zona buia, nascosta. Una zona che non amiamo attraversare, ma ci troviamo sempre dentro.

Denis Villeneuve ci racconta questo. Lo fa attraverso un film che è di una potenza, forza, violenza, insostenibile.  Mettendo in scena tutto quello che il cinema ha a disposizione per narrare, plasmare, restituire, la realtà e la verità. 

Però il regista canadese sa che la realtà e la verità, non sono di casa nel cinema. Il quale rimane sempre un trucco e una finzione, per questo usa un anacronistico e cinefilo bianco e nero. Per questo la sua macchina da presa non è mai statica, non segue mai il “documentarismo”, ma rivendica la forza e giustezza del cinema.  Come mezzo che usando la finzione e le immagini, ci racconti di noi.

Polytechnique  racconta molto di noi. Fin troppo. E non sono cose piacevoli.

Perché gli esseri umani vanno contro alla morte con rassegnazione? Se non fossimo usciti da quell’aula, se fossi rimasto, cosa sarebbe successo? Perché un ragazzo, uno dei tanti, dovrebbe odiare così tanto le donne? Cosa è successo al nostro cuore? Perché è così difficile amare e riconoscersi negli altri? Non c’è scampo con film di questo tipo: tu vedi questo tizio sparare e ti chiedi: Se fossi lì? Se fossi tra le vittime? Se ci fossero i miei amici e le persone che amo? E subito dopo: se fossi io a sparare? La società occidentale è da almeno un ventennio in caduta libera. Valori, etica, ideologia, abbiamo perso molte cose. Siamo soli, spaventati, e allora si spara. Si e ci si uccide.

Questo film è un horror. Lo definirei così. Parla di mostri, fa paura, c’è violenza. Ma i mostri non sono vampiri, licantropi, zombi, no. Siamo noi. L’uomo che vedi al bar, che passa di fianco a te in strada, che aspetta il bus.

C’è troppa solitudine in questo film e in questo mondo. Forse se il tizio che ha ucciso quelle persone, avesse avuto uno accanto… Che ne so ? Un amico? Un genitore? Magari sarebbe andata diversamente. Poi ti interroghi sul fatto che queste cose succedono proprio perché in famiglia o fuori, è lo stesso. Sconosciuti e soli.

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Le scene del massacro sono girate benissimo. Il frastuono delle grida  e degli spari, la freddezza ottusa del killer, lo smarrimento e spaesamento delle persone. Questa pellicola mette in luce quello che siamo veramente: peni per le povere vittime, o sotto sotto sei affascinato dall’incedere implacabile dell’assassino? I discorsi che lui fa contro le donne, che lui chiama femministe, quante volte li hai sentiti fare? E cosa hai fatto? Hai abbozzato un sorriso? Commentato con una battuta idiota? O hai detto: ” mio caro amico, parli da uomo ferito?” Ti sei ribellato? I danni della cultura machista, noi uomini, li abbiamo superati?

Per questo considero la visione del film a un pubblico rigorosamente maschile. Parla di noi. Non sono cose belle.

Anzi, sono cose che mi fanno vergognare, che mi fanno male, perché le grandi tragedie sono figlie delle piccole concessioni: ” Ma si! Scherziamo sui gay! Ma certo! Le donne? Cazzi e cazzotti! I negri? A casa loro!” Affidatevi alle ruspe, all’odio dei frustrati. Un giorno qualcuno dirà che siete voi ” il problema”. Un giorno riceverete l’odio che avete seminato, l’indifferenza che avete propagandato, e nessuno vi piangerà

Insegnare ad amare, questa è l’unica cosa da fare