Rubrica I primi della lista: Giorni perduti di Billy Wilder
Parlare di Giorni perduti è difficile. Non solo perché è uno di quei film che ha fatto la storia del cinema, né perché dietro la macchina da presa c’è un grandissimo regista e neppure per la perfezione formale che lo contraddistingue. No. Parlare di Giorni perduti è difficile perché è un film spietato, crudo, implacabile, un film che non tenta neppure un po’ di edulcorare una realtà (tranne nel finale ma ci arriviamo) che è davvero difficile da accettare. Perché chiunque di noi non riesce ad accettare che una persona alla quale vuole bene scelga di precipitare in un abisso dal quale nessuno la potrà tirare fuori.
La trama credo che sia nota a tutti. Don Birman (Ray Milland), aspirante scrittore, è affetto dal vizio dell’alcool e, malgrado la presenza costante del premuroso fratello Wick (Philip Terry) e della fidanzata Helen (Jane Wyman), precipita sempre di più nel tunnel dell’alcolismo fino ad allontanare tutti da sé e a meditare il suicidio.
La pellicola è caratterizzata da un andamento sempre più incalzante che, partendo da un incipit relativamente disteso (ma Wilder è abilissimo, fin dalla prima inquadratura in cui ci mostra una bottiglia appesa con una corda fuori da una finestra, a farci capire che la serenità percepita è solo apparente), prosegue in un climax man mano sempre più allucinato.
Già la scena con cui si apre la pellicola è un capolavoro di regia. Da una parte Wilder ci presenta i personaggi principali (Don, Wick ed Helen), dall’altra mette subito in campo in maniera sottile il vero protagonista della pellicola: il vizio del bere. Perché l’alcolismo in Giorni perduti diventa, fin da subito, un vero e proprio personaggio, come è sottolineato più volte anche dallo stesso Don, che parla di “due Don”.
La dipendenza dall’alcool diventa la personificazione del male perché non è mai un attributo del personaggio ma proprio un personaggio a sé stante, pur conservando le fattezze fisiche del protagonista.
E così quando noi spettatori vediamo l’altro Don in scena riusciamo subito a distinguerlo dal primo, proviamo ripetutamente una sensazione di disagio, ci sentiamo insieme a lui sull’orlo di un baratro in cui è fin troppo facile scivolare, in cui abbiamo la certezza che scivoleremo inevitabilmente. L’altro Don ci terrorizza, non vorremmo mai vederlo in scena. Ogni volta che lo vediamo ordinare un altro bicchiere vorremmo essere lì per versarne il contenuto nel lavandino, esattamente come fa Wick ad inizio film, quando scopre la bottiglia appesa fuori dalla finestra. Eppure siamo consapevoli che non possiamo farlo. Non possiamo fermare l’altro Don. Nessuno può fermare l’altro Don. Allora vorremmo sottrarci alla visione perché ci fa troppo male ma Wilder non ce lo permette. Perché sa perfettamente come tenerci incollati allo schermo. Quando la visione sta per diventare insostenibile Wilder ci dà la speranza. Un gesto, uno sguardo più lucido, una frase e noi, ancora una volta, ci illudiamo che l’altro Don possa andarsene.
Ma poi arriva la scena del topo e del pipistrello. Lo sappiamo. Arriva ogni volta. E la scena del topo e del pipistrello non è umanamente sostenibile. È la manifestazione del delirio, la fase più acuta dell’alcolismo. Don, solo nella sua stanza, dopo l’ennesima sbornia, vede un piccolo topolino uscire dal muro e, poco dopo, un pipistrello che vola per la stanza fino ad avventarsi sul topo per ucciderlo, facendo colare il sangue della bestiola sulla parete. Le urla disperate di Don a questa visione ci fanno capire che non c’è più alcuna possibilità per lui, che nessun riscatto sarà possibile. Invece il finale posticcio e consolatorio (sicuramente imposto come avveniva sovente in quegli anni) disperde la forza brutale ed allucinata dell’opera, senza che per questo si arrivi a giudicarla meno bella ma lasciandoci il rimpianto di vedere fino a dove avrebbe potuto spingersi Wilder se avesse avuto la possibilità di farlo.