Rubrica L’età dell’innocenza: Non è ancora domani (la pivellina) di Tizza Covi e Rainer Frimmel

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Esiste tutto un mondo fatto di un cinema minore, sotterraneo, al limite del dilettantesco che resta invisibile ai più, escluso quasi sempre dai grandi circuiti distributivi e ben poco pubblicizzato. È un cinema che vive grazie al passaparola degli appassionati o grazie alle partecipazione ai festival e che esprime l’urgenza di avere qualcosa da dire. Dal punto di vista prettamente cinematografico quasi mai è degno di nota ed è ricco più di difetti che di pregi ma, dal punto di vista umano, è denso di valore. Non è ancora domani fa parte di questo tipo di cinema.

Protagonisti della pellicola sono un gruppo di artisti di strada circensi che vivono nella periferia romana in un campo di container. La Covi e Frimmel ci descrivono una comunità variegata, composta da individui eterogenei provenienti da diversi paesi e culture (alcuni hanno un forte accento straniero) ma che hanno trovato il modo di convivere in maniera pacifica costruendo una specie di famiglia allargata, affettivamente estremamente solida. Il tema sociale è lasciato ai margini della pellicola, incentrata sul ritrovamento di una bambina sull’altalena di un parco, ma è presente in maniera pregnante come sottotetto di tutta la pellicola.

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La bambina (che dice di chiamarsi “Aia” ma che viene immediatamente ribattezzata la pivellina) viene accolta nella comunità in maniera naturale ed integrata immediatamente nel ritmo di vita dei suoi componenti. Nonostante la perplessità di qualcuno, che vorrebbe denunciarne il ritrovamento alla polizia, perché consapevole di stare dalla parte sbagliata della società e, di conseguenza di essere più fragile e maggiormente attaccabile, la pivellina diventa il fulcro intorno a cui ruotano le vite dei protagonisti della pellicola, soprattutto quelle di Patty e Tairo. Patty, donna di mezza età sposata ma, apparentemente, senza figli, si lega fortemente alla bambina e comincia a riversare su di lei tutto l’affetto di cui è capace. D’altra parte anche la pivellina si affeziona immediatamente a Patty dalla quale si sente protetta e amata. Tairo è un ragazzino di tredici anni che comincia ad occuparsi della pivellina per dare una mano a Patty e diventerà per lei una specie di fratello maggiore, affezionandosi così tanto da incrinare anche la relazione con una sua coetanea che non capisce questo improvviso interesse di Tairo per la bambina, tanto da arrivare al punto di preferire occuparsi della pivellina piuttosto che uscire con lei. Ma Tairo sperimenta, probabilmente per la prima volta, un legame affettivo estremamente forte ed intenso. La bambina, da parte sue, trova in Tairo un punto di riferimento imprescindibile ed arriva a prediligerlo rispetto a tutti gli altri.

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I registi non sono tanto interessati a raccontare una storia, che qui è poco più di un pretesto, ma ad indagare i legami che si creano tra i diversi protagonisti: la bambina che irrompe nelle loro vite non può più essere ignorata, una volta che è presente, e costringe chiunque rapportarsi con lei. La naturalezza con cui è rappresentata la bambina esclude totalmente un’impostazione di recitazione e si avvicina ad una semplice ripresa dal vero, d’altra parte la pivellina non ha nessun bisogno di recitare perché viene seguita nelle sue azioni quotidiane (il momento del risveglio, un pasto, il gioco e così via), facendo così emergere l’infanzia della bambina in tutta la sua potenza e verità.

La pivellina è un film semplice, fatto di poco, ma tutt’altro che banale perché mostra delicatezza e grande rispetto nella rappresentazione di una comunità marginale ma estremamente umana, pronta ad accogliere chiunque proprio perché consapevole di avere per prima bisogno di accoglienza e solidarietà.