Acab di Stefano Sollima

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Lo dice il nome stesso: forze dell’ordine. Quindi un’attività sociale di contenimento di ogni forma di crimine e di vigilanza massima per la sicurezza dei cittadini. Un lavoro di massima responsabilità. Forse troppa, un lavoro che ti porta a conoscere un mondo brutale, feroce, sporco. Ci vuole poco per diventare una bestia e adottare, fare propri quei modi e quelle regole, tipiche della malavita o di persone non proprio raccomandabili. Il poliziotto è uno dei lavori più odiati, tra i tanti che uno fa per campare. Perché sai come è? Vogliono la sicurezza e le manganellate contro i diversi, i rifiuti della società, poi si scoprono garantisti quando la polizia tocca i borghesi. Quindi un giorno sei l’eroe di turno e un altro sei un farabutto.

Per questo non ci dovrebbe esser posto per i protagonisti di codesta meravigliosa pellicola, nelle forze dell’ordine.

Acab  è un epico, violento, angosciante viaggio nel lato oscuro della nostra società. Sospeso tra istanze di genere e denuncia, tra adesione assoluta ai fatti reali, tanto da usare i nomi di alcune vittime della delinquenza o della polizia, e un’epica da grande cinema. Non è un film che offre consolazione, che si perde in analisi e riflessioni, ma punta duro allo stomaco di ognuno di noi. Quale differenza esiste tra la violenza di un criminale e quella di uno sbirro? Dove sta il confine tra un uso corretto della forza e quando comincia la repressione, lo sfogo di un gruppo di uomini violenti e disturbati?

Perché questo sono i protagonisti di codesta pellicola: uomini disturbati. Che campano su un uso distorto della solidarietà, cameratismo, fratellanza, ma in sostanza sono dei poveracci. Cobra, un ottimo Pierfrancesco Favino, è un uomo solo, chiuso nel suo lavoro, perso nel suo piccolissimo mondo. Un nostalgico del Duce. Mazinga, eccellente Marco Giallini, ha problemi con il figlio, anche lui simpatizzante dell’estrema destra . Forse è l’unico ad aver dei rimorsi, a mostrare barlumi di umanità. Infine  ” Il Negro”, un disturbante e disturbato Filippo Nigro, è un pazzo scatenato con grossi problemi per via di un matrimonio che sta fallendo.

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Stefano Sollima mostra un mondo alla deriva. Lo fa con uno stile essenziale, secco, preciso e di grande impatto. Non nasconde nulla, ma nemmeno strumentalizza. Forse il film è fin troppo pessimista, ma è una parte della nostra realtà : un mondo folle, dove dei cavalieri pazzi e senza controllo, dovrebbero far rispettare la legge.

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Acab si conferma un bel pugno allo stomaco. Lo vidi a distanza ravvicinata di Diaz di Daniele Vicari e ricordo che, insieme, furono qualcosa di molto difficile da digerire.

Pur essendo due pellicole molto diverse, per trama ed intenzione, entrambe hanno il merito di farti entrare nell’ambiente della polizia attraverso il suo reparto più controverso, quello in prima linea nelle manifestazioni, quello che si trova spesso ad affrontare gruppi di persone in situazioni particolari, in cui la tensione è palpabile. Acab, ancora più di Diaz, fa comprendere quanto rancori e repressioni personali possano portare ad una violenza fatta passare come necessaria quando, invece, è del tutto ingiustificata.

Sollima mette subito lo spettatore al centro dell’azione, presenta i protagonisti in maniera rapida ma efficace e fa capire immediatamente quanto sia facile superare il confine tra giustizia ed ingiustizia, soprattutto quando si ha un’arma in mano.

Persone problematiche, sole, rabbiose: questi sono i poliziotti tratteggiati in questa pellicola. Il ritratto che ne esce fuori è crudo ed impietoso. E anche se non pretende di essere rappresentativo della realtà nella sua totalità è molto probabile che rappresenti una parte di questa realtà. E già questo è molto difficile da accettare.

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Acab è un film estremamente maschile, e non solo perché i suoi protagonisti sono tutti uomini. È un film maschile perché mette in campo dei meccanismi di solidarietà reciproca che una donna fa molta fatica a comprendere. Sono presenti un cameratismo ed un senso di appartenenza al gruppo, in questo film, che portano a privare il singolo della propria responsabilità personale, perché all’interno del gruppo si è più forti e si prendono decisioni comuni. Ne è un esempio la scena in cui i protagonisti decidono di vendicare il ferimento di Giallini durante una carica ad alcuni ultras andando a scovare i responsabili all’interno di un gruppo di estrema destra, per punirli come meritano. È un atteggiamento, questo, tipico del bullismo in cui è il gruppo a costituire la forza del singolo. È anche un atteggiamento indice di forte instabilità personale, laddove le proprie idee e pulsioni acquisiscono un senso solo se sono sostenute ed approvate dai propri fratelli (come nel film si chiamano tra loro i poliziotti). In nome di questa fratellanza tutto è lecito. In nome di questa fratellanza persino la legge (che in teoria questi uomini dovrebbero difendere e far rispettare) può essere travalicata in nome di una sorta di giustizia che somiglia molto di più alla vendetta.

La regia di Sollima si mette al servizio delle interpretazioni dei suoi protagonisti ponendoli al centro della scena, proprio per ricreare quel senso di onnipotenza che i personaggi che rappresentano ritengono di avere. Del resto tutti gli attori sono perfettamente calati nella parte e funzionali ai loro personaggi, forse con l’unica eccezione di Domenico Diele che non si dimostra mai completamente a suo agio nel rappresentare quello che, probabilmente, è il personaggio più complesso, costretto a stare in bilico tra remissività e rabbia.