Il mistero dell’acqua di Kathryn Bigelow

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LUI

L’avete capito? Da queste parti amiamo assai Kathryn Bigelow, ci piace il suo cinema epico, aspro, titanico, basato su grandi storie e memorabili personaggi. Un modo di intendere il cinema classico, solido, robusto. Eppure non manca mai il momento sospeso, quella fragile e veloce malinconia, la solitudine di persone che non sono mai ben inquadrate e inquadrabili. Buoni? Cattivi? Cosa? E cosa importa?

Il mistero dell’acqua credo sia il suo film più particolare, dove la regista si mette completamente in gioco, lasciando le lande sicure dei film precedenti, per avventurarsi nei territori di un dramma difficilmente inquadrabile.

Opera sfuggente, tumultuosa e agitata, come il mare che, in un certo senso, la fa da padrone.

Per prima cosa ci troviamo davanti una pellicola che azzarda contaminazioni, non tanto di generi o stili, quanto di produzioni, di idea del mezzo cinematografico e le sue potenzialità espressive.  Opera, quindi, sospesa tra un certo cinema europeo “autoriale”, di chiara impronta nordica, basti veder l’utilizzo di attori europei spesso presenti in film d’autore inglesi o danesi. Qualche nome? Ulrich Thomsen, il marito ben poco attento della povera Sarah Polley  e  Katrin Cartlidge  nel ruolo della sorella altezzosa di Maren.  Questa eredità del cinema europeo viene contaminata e mescolata con un dramma ambientato a bordo di una barca, che ha uno stile più nervoso e decisamente americano. Miscela esplosiva e vincente per me.

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Il film narra la storia di una coppia, lei fotografa e lui poeta, alla deriva (di nuovo il mare seppure come metafora) i quali decidono di dedicarsi un week end sulla barca del cognato e della sua nuova fiamma. In realtà il viaggio è anche un’occasione professionale per Jean. Si sta infatti documentando su un delitto avvenuto cento anni prima su un’isola della zona. Il viaggio la porterà sempre di più a rivedersi nella donna autrice di una sanguinosa strage, e ad aprire gli occhi sul fallimento assoluto della sua relazione.

Nel frattempo noi veniamo a conoscenza della tragica vita della giovane Maren. Lasciata la Norvegia, sposata per dovere, custode di una casa persa in una zona poco ospitale.  La donna è innamorata del fratello, con il quale ha avuto una relazione incestuosa mai dimenticata. L’arrivo sull’isola della sorella e del fratello con la cognata, farà esplodere la situazione.

Questa parte girata in un ostile e freddissimo 1800, è per me la parte migliore. Un soffocante e doloroso dramma umano, dove si sente la minaccia della follia pronta ad esplodere. E quando succede è devastante. Sarah Polley si dimostra una grandissima attrice, dando al suo personaggio spessore assoluto. Maren è frustrata, infelice, rancorosa, non è facile provar empatia per lei, ma è anche una vittima degli eventi. Di una società chiusa, feroce, ipocrita. Una donna non compresa e schiava del suo ruolo, nella quale si rispecchia la fotografa americana. Una incapace di mantenere una relazione e di farsi amare per via del contesto storico conservatore e per la sua perversione, l’altra vittima di questa epoca di sentimenti precari, traballanti, legati alla percezione di amore e non a un’idea reale e chiara.

Fa male come film, Il mistero dell’acqua, fa male perché implacabile scava nella zona buia delle relazioni, mette in evidenza la solitudine femminile nei rapporti di coppia e sociali, ci mostra la debolezza e la vacuità maschile, la chiusura nei confronti degli altri.

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Nella filmografia di Kathryn Bigelow Il mistero dell’acqua è una mosca bianca. Apparentemente. La Bigelow, infatti, ci ha abituati a pellicole molto fisiche, adrenaliniche, muscolari. È sempre stata (e tornerà ad essere, dopo questo film) una regista di action, privilegiando sempre l’aspetto fisico e lasciando in secondo piano quello squisitamente psicologico. La sua è da anni una scelta di forte coerenza, anche narrativa, se vogliamo. Con questo film, invece, la regista offre allo spettatore una storia (anzi due!) di notevole complessità, sia sul piano narrativo che su quello psicologico. La fisicità di questo film è relegata alla natura più che all’uomo. In questo senso il titolo originale della pellicola (The Weight of Water) ha molto più senso della sua traduzione. L’acqua è una protagonista minacciosa, onnipresente, impetuosa e, appunto, pesante.

La Bigelow sceglie una narrazione frammentata per raccontarci due storie solo apparentemente lontane tra loro. In realtà quello che le interessa è parlare della condizione femminile, dell’essere donna in un mondo essenzialmente maschile. Nel fare questo, però, l’intento non è quello di denuncia ma l’osservazione di determinati meccanismi, psicologici e sociali, che vengono scandagliati ed esplicitati in modo che sia poi lo spettatore a decodificarli secondo la sua personale esperienza.

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Due storie, dicevamo, una contemporanea e l’altra ambientata un secolo prima, all’epoca delle emigrazioni in America da parte di molti europei. La storia più remota racconta di un omicidio avvenuto su una piccola isola di pescatori emigrati dalla Norvegia e per il quale fu impiccato un uomo. Quella moderna, invece, racconta un viaggio in barca di due coppie che raggiungono l’isola proprio per un reportage fotografico sugli efferati omicidi avvenuti un secolo prima. Inutile cercare punti di contatto o parallelismi tra le due vicende: non ve ne sono. E questo è il primo notevole pregio di questa pellicola, quello che denota maggiormente l’abilità della Bigelow nella messa in scena delle sue storie. Perché i parallelismi sono essenzialmente ed esclusivamente ottenuti attraverso collegamenti visivi, escludendo completamente ogni collegamento narrativo delle due vicende che, al di là di essere incentrate entrambe su due figure femminili in rivalità tra loro, non hanno nessuna relazione. La grandissima padronanza del mezzo da parte della regista sta proprio nel far apparire perfettamente coerente questo parallelismo ed assolutamente naturale il passaggio dall’una all’altra, senza distogliere neppure per un attimo l’attenzione dello spettatore e senza cali di tensione durante tutto il film. La Bigelow ottiene questo utilizzando esclusivamente il linguaggio cinematografico, modulando le immagini in funzione narrativa più che estetica. E la grandezza di questa regista si nota proprio qui perché riesce a farlo con una naturalezza tale che noi spettatori quasi non ce ne accorgiamo. Anzi, lo consideriamo perfettamente logico e coerente.

La Bigelow, quindi, compie una specie di miracolo con questa pellicola e ci regala un film crudo, teso, psicologicamente difficile da sostenere. Lo fa anche grazie ad un gruppo di attori bravissimi, capaci di dare spessore ai propri personaggi solo con uno sguardo o con un movimento impercettibile collocato nel momento giusto. Tra tutti giganteggiano Sean Penn e Sarah Polley sulle cui interpretazioni si potrebbero stilare un paio di manuali di recitazione!