Sinister di Scott Derrickson

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Attenzione! Contiene spoiler

LUI

Potere del cinema, quello di metter sempre in dubbio ogni tuo (pre)giudizio su registi, attori, generi. Prendi per esempio Scott Derrickson, uno che ha fatto film non certo memorabili, anzi che ha navigato anche nel pessimo totale, come il remake di Ultimatum alla terra. Eppure, sai cosa capita? Che giri un’opera horror davvero ben fatta.

Spingendoti in questo modo a metter in discussione il tuo giudizio, facendoti notare che ogni film è opera a sé stante e quindi necessariamente da giudicare dopo una serie visione e non su idee bislacche o pregiudizi. Certo, sono contrario e anche tanto a quelli che per un film indovinato, decidono di rivalutare un mediocre artigiano. Però, quando un tipo simile ti gira un bellissimo film come  Sinister, non possiamo che prenderne atto. E applaudire.

Cosa racconta il film? La storia di una famiglia americana che si trasferisce in una nuova casa. Il padre era uno scrittore famoso, ma oggi naviga in cattive acque, così ha deciso di trasferirsi in codesta magione per trovare un’idea vincente e far di nuovo tanti soldi. Ethan Hawke  è bravissimo nel ruolo di un uomo vittima del suo successo, uno scrittore mediocre che passata la bella stagione della fama e delle interviste in tv, vorrebbe tornare a rivivere quei fasti. Per farlo non lesina di nemmeno di metter in grave pericolo la sua famiglia e il suo matrimonio, omettendo a sua moglie che quella casa è stato commesso un orribile delitto. Le cose peggiorano quando , in soffitta, trova dei super 8 che lo porteranno a scoprire una macabra verità.  L’ossessione per il successo, che colpisce molti individui non sinceri con loro stessi e con i loro limiti, non può che portare rovina e terrore. Questo lo impara subito l’uomo risvegliando un terribile dio babilonese. Un dio che mangia l’innocenza dei bimbi, che trasforma la casa, l’infanzia, in qualcosa di tenebroso e infernale. Sinister è bellissimo, perché come ogni horror che si rispetti: turba, inquieta, e ci spinge a riflettere sulle debolezze umane che ci portano a una fine poco gloriosa. Opera che mette in dubbio il fatto che l’uomo sia fautore delle proprie scelte e di come in realtà egli sia solo ingannato, con macabro senso dell’ironia, dal Male. Rende i bambini vittime, ma non solo. Rimarcando il fatto che l’innocenza possa esser corrotta e che possa esser il mezzo con cui il Male si rivela nel nostro mondo.  Parla del potere dell’immagine, del mezzo cinematografico, di come le potenze maligne riescano a usare ogni mezzo per arrivar al loro scopo. E il bene? In questo film non esiste. Senza forzature, come fosse un fatto normale.

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Sicché la pellicola va in fondo a diverse tematiche: non una sola storia che abbia al centro un villain spettacolare e le solite cose su una dimora infestata. Ma una riflessione ironica sul mezzo, l’ambiguità del vedere, l’amara ironia del libero arbitrio, quando in sostanza sei solo predestinato a esser sacrificato. Opera molto più cupa, radicale, di quanto possa credersi. Non risparmia nulla e ci fa rimanere prigionieri della brutale, suggestiva, potenza di un dio antichissimo che si diverte a prendersi ogni singola parte della nostra vita e degli affetti. Un dio che ci imprigiona nelle immagini, nella filosofia del vedere e sopratutto “rivedere”, illusi che la tecnologia possa salvarci. Illusi che l’uomo possa salvarsi dall’inferno, quando non contiamo pressoché nulla.

LEI

Sinister è un esempio pregevole di film di genere onesto e ben realizzato. Uno di quei film che fa il suo dovere, cioè spaventare, senza ambire a diventare qualcosa di più di una pellicola di puro intrattenimento. Ma non per questo è un film sciatto, che tratta gli spettatori da idioti. È un ottimo prodotto, sia a livello tecnico che a livello di prove attoriali, anzi, nel caso di Ethan Hawke, anche qualcosa di più.

La trama è una delle tante declinazioni della casa maledetta, all’interno della quale sono stati compiuti degli efferati delitti ma declinata con qualche interessante variante a livello di sceneggiatura. In questo caso, ad esempio, la scelta di abitare proprio nella casa teatro di una strage familiare non è casuale né tantomeno inconsapevole. Infatti la trama ruota intorno ad uno scrittore in crisi (Ethan Hake appunto) che non è più riuscito a scrivere un libro di successo dopo il suo folgorante romanzo di esordio, Kentucky Blood. La scelta di trasferirsi con la famiglia (moglie e due figli di cui il maggiore affetto da terrore notturno) proprio in quella casa è determinata dalla volontà di scrivere un libro che parli dei delitti avvenuti in quel luogo (la sua specialità sono proprio romanzi che prendono spunto da fatti di sangue realmente avvenuti).

Quello dello scrittore in crisi è un espediente visto e rivisto al cinema e Derrickson, in fondo, non ci dice nulla di nuovo ma riesce a descriverci un personaggio credibile, fragile e nervoso, come sospeso sull’orlo del baratro della sconfitta, umana e professionale. Ed Ethan Hake è bravissimo ad incarnarlo. Riesce a regalarci un’interpretazione estremamente fisica, lavorando molto su postura e gesti. Il suo personaggio è quasi una declinazione ‘ripulita’ del Lebowski di Jeff Bridges, basti vedere il cardigan che Hake indossa quasi in ogni scena, come fosse una divisa, o il bicchiere di whiskey che riempie e svuota in maniera compulsiva, in corrispondenza dei momenti di massima tensione. Non è affatto facile impersonare un personaggio del genere rendendolo credibile al di là dello stereotipo che incarna e, in questo caso, va dato totalmente il merito ad Hake se questo personaggio è così riuscito.

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Un altro momento essenziale della pellicola, che ci fa capire come dietro un’opera del genere ci sia un’ottima sceneggiatura, è quello del litigio tra Ethan Hake e Juliet Rylance. Ambientato in una stanza chiusa il litigio prende l’avvio dalla scoperta della donna di trovarsi in una casa teatro di una strage. Il luogo in cui è girata la scena è importantissimo, in questo caso, perché diventa quasi una prigione per Hake che è costretto a trovarsi di fronte alle proprie paure e ad affrontarle, incalzato dalla rabbia della moglie. I tentativi di difesa di Hake diventano sempre più patetici di fronte all’esasperazione della donna che non è più disposta a tollerare le scuse e le menzogne che il marito continua a propinarle. È una scena davvero ben riuscita, non solo per come mette in scena certi stereotipi sulle differenze di percepire la famiglia tra uomo e donna, ma anche per come è ripresa, per come la stanza chiusa (la camera da letto simbolo implicito di felicità ed unione coniugale) viene utilizzata come espediente per far capire che non ci sono più possibilità di errori, che  da quel momento in poi le mosse successive possono solo essere quelle giuste, altrimenti tutto quello che fino a quel momento si è cercato di costruire sarà irrimediabilmente perduto.