Rubrica Berlinguer ti voglio bene: Il Divo di Paolo Sorrentino

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Chi è Giulio Andreotti? Cosa rimarrà di lui? Quale enigma nasconde un uomo di potere come lui? E se “il potere logora chi non ce l’ha”, cosa può fare a un uomo che ne detiene forse troppo?

Il divo è un film potentissimo che trae spunto dalla figura del noto e chiacchierato uomo politico per descrivere un paese  strano e terrificante. In bilico tra commedia e horror. Biografia politica che, quasi come in un incubo “Antoniano”, scappa e fugge dal suo soggetto per trasmettere un’opprimente senso di cupezza e oppressione, difficile da cacciare.   Paolo Sorrentino  non sceglie una strada lineare, documentaristica, realistica, di mera cronaca politica e giudiziaria, per rappresentare una parte della vita del senatore romano. Non usa immagini di repertorio, non rimane distaccato, ma nemmeno eccede in partecipazione. Usa in modo magistrale la macchina cinema per narrarci il lato oscuro del paese e di un uomo che è sempre stato in prima fila nella vita politica nazionale. Più volte ministro e presidente del consiglio, uomo di intrighi, certo, ma sopratutto di solitudine infinita. A parte la moglie e l’affezionata segretaria, non ha amicizie. Pressoché assente l’amore o l’empatia per qualsiasi essere umano. Uomo potente, ma terribilmente solo.

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Dicevamo: ” il cinema”. Esatto! Perché l’opera non si affida alla fredda cronaca,  ma alle suggestioni e percezioni donate dal montaggio e sopratutto dalla splendida fotografia di Luca Bigazzi. Che pesca nella grande tradizione di film come “Todo Modo”, e propone con il suo delle luci un ritratto apocalittico, sgraziato, feroce, dell’uomo, ma sopratutto dei tempi e della società.

SET DEL FILM "IL DIVO" DI PAOLO SORRENTINO. NELLA FOTO DA SX: FLAVIO BUCCI (EVANGELISTI), ALDO RALLI (CIARRAPICO), CARLO BUCCIROSSO (POMICINO), ACHILLE BRUGNINI (CARD. ANGELINI), MASSIMO POPULIZIO (SBARDELLA) E GIORGIO COLANGELI (LIMA). FOTO DI GIANNI FIORITO

Sarebbe facile fare un film colpevolista, moralistico, dove si tende a dividere il soggetto dal suo ambiente.  Sorrentino, e i suoi magnifici attori, evitano tutto questo. Andreotti è Andreotti perché si trova in Italia. Costui è un figlio legittimo di una repubblica corrotta, che ha usato bombe e terrorismo nero per bloccare le rivolte proletarie e progressiste, che ha fatto patti con la mafia, artefice e vittima del suo destino democristiano. Un colosso d’argilla, molto sopravvalutato, che forse, come gli rammenta la moglie a cena, è solo battute, volontà di ferro nel mantenere il potere, poco altro. Testimone cinico e muto dello sfacelo assassino di cui è vittima il suo paese.

Tony Servillo, servito da una ottima sceneggiatura, rappresenta un Andreotti complesso, ricco di sfaccettature eppure quasi del tutto immobile. Ora come una figura tenebrosa alla Nosferatu, ora mediocre e triste funzionario di partito, con il ricordo tormentoso di Moro, la voglia di diventare presidente della repubblica. L’ascesa e caduta di un uomo e dei suoi “bravi”, indimenticabile la presentazione alla ” Tarantino” della corrente andreottiana. In poche immagini tutto un paese, tutto il suo disastro. Tra questi spicca  Carlo Buccirosso il suo Cirino Pomicino festaiolo e stratega rimane a lungo nella nostra memoria. Come tutti gli altri personaggi: tra “schifo e pena”. Detestabili per uomini di un potere corrotto, ma uomini piccoli e fragili, che hanno bisogno di un Padre- padrino, per vivere ed esser qualcosa nella vita nazionale.

Il divo  è puro realismo magico, con la sua atmosfera al limite dell’horror, il senso di apocalisse vicina, la rappresentazione di un paese che ha la metastasi della tragicommedia. Di cui Andreotti è stato un attore. Oggi quasi dimenticato. O forse no.